martedì 23 giugno 2009

Una maglietta, per caso.

Questa mattina ho visto, esposta nella vetrina di un negozio di Parma, una maglietta con su scritto:
“ALL WE NEED IS SOMEONE TO KISS US GOODBYE”.
Mi sono fermata e ho riletto. Per essere sicura. No no, non avevo sbagliato.
Allora ho pensato: -Ma davvero stanno cercando di dirmi che tutto cio’ di cui ho bisogno e’ qualcuno che mi dia un bacio d’addio?-
Ho continuato a riflettere per un po’. Perche’ quest’affermazione non e’ che sia poi cosi’ scontata.
Dopo vari tentativi, fatti per capire il senso della scritta, ho pensato alla morte. E a tutti coloro che non hanno avuto la possibilita’ di darmi un bacio d’addio prima di andarsene per sempre. Troppi.
Chissa’, forse e’ vero il contrario. Magari l’assenza di quel saluto estremo e’ un picchetto simbolico, piantato per assicurarmi che la porta d’accesso alla nicchia dei ricordi non si chiuda mai; per fare in modo che nessuno scompaia davvero per sempre.
E mi chiedo se lo stilista sconosciuto, quando ha scelto di decorare la sua maglietta con quella frase, si sia reso conto che un giorno avrebbe indotto tale flusso di pensieri in una passante, che per caso l’avesse notata.
"MESSAGE ON A T-SHIRT FLOATING IN THE OCEAN OF CONSUMERISM".
Questa e’ la frase che stamperei su una maglietta. Adesso.

domenica 26 aprile 2009

Il concerto della Liberazione a Parma

Ieri era il 25 aprile e io ero a Parma.
Parma e' stata liberata dall'occupazione nazi-fascista il 26 aprile 1945, ma ieri ha festeggiato la Liberazione come il resto dell'Italia.
Io non stavo tanto bene e così sono rimasta a casa per tutto il giorno. La sera, però, malgrado i malanni, sono voluta andare a vedere il Concerto della Liberazione in piazza Garibaldi. Là ho incontrato un amico, G., il quale mi ha raccontato un fatto che gli è appena capitato. Lui è della Costa D’Avorio, ma vive a Parma da nove anni. G. ha ottenuto un regolare permesso di soggiorno, che però non gli è ancora stato recapitato. Quindi temporaneamente possiede un documento sostitutivo che certifica la sua regolarità nel nostro paese. Ho pensato ad una specie di foglio rosa, quello che danno ai neo-patentati finché non gli arriva la patente. Bene, per le vacanze di Pasqua G. parte per un viaggio in macchina in direzione di Parigi con un suo amico, anche egli regolare ma con foglio sostitutivo. I due vengono fermati poco dopo aver superato la frontiera con la Francia. La polizia gli comunica che i loro documenti non gli consentono di lasciare l’Italia...in seguito ad una legge uscita un mese prima. Loro dicono di aver controllato a febbraio la validità del documento ai fini del viaggio e di non sapere nulla della nuova legge. La polizia verifica la loro situazione legale. Tutto in regola...fino a questo ultimo reato involontario. G. e il suo amico non vengono fatti rientrare in Italia, come verrebbe naturale supporre. No, la procedura prevede che loro passino la notte della vigilia di Pasqua in prigione e che siano rilasciati solo l’indomani...con tanto di Buona Pasqua!!! Per un errore ingenuo i due ragazzi, trattati come clandestini in fuga, sono rientrati in Italia con una complicazione aggiunta alla loro condizione già precaria.
Il racconto del mio amico mi ha rattristato parecchio. Questo sarebbe un mondo liberato? Non secondo me. Piuttosto “RESISTENZA” mi pare un concetto tornato ad essere di estrema attualità.
Il concerto, però, è stato bello. Piazza Garibaldi era gremita. Un energetico Capossela ha cantato, ballato e letto poesie. E non era solo. Anzi, era in ottima compagnia. Lo hanno interrotto un monologo di Neri Marcorè e uno di Alessandro Bergonzoni (entrambi decisamente brillanti). Poi è entrato sul palco con la sua sedia, un berretto rosso e la barba importante, il cantastorie anarchico Enzo Del Re, che ha cantato per un tempo abbastanza lungo...e soprattutto con lentezza. Parte della folla mi è sembrata sorpresa e forse anche delusa dalla presenza di Del Re. Dopotutto loro erano lì per Capossela. Non erano soli, però, c’erano pure gli altri. Quelli che sapevano chi fosse Del Re e che lo hanno applaudito con vigore.
Poi un’altra bella sorpresa. I Fiati Sprecati, una banda popolare di strada. Quanto mi piacciono queste “marching bands”. A Baltimora ne avevo vista una, la Rude Mechanical Orchestra, che si era esibita in una radura sotto un ponte della città. Il loro concerto lo avevano concluso suonando Bella Ciao e io ero al settimo cielo...per ovvi motivi. Ieri sera anche i Fiati Sprecati hanno chiuso la loro esibizione con Bella Ciao. In questo caso non ero altrettanto stupita come per via della Rude Mechanical Orchestra, ma l’energia del momento mi ha comunque caricata incredibilmente.
Dopo i Fiati è tornato Vinicio. Lui ha concluso il concerto con “All’una e trentacinque circa”, aiutato da Marcorè. I miei vicini di piazza questa volta non hanno cantato. Forse non conoscevano i pezzi più vecchi di Capossela. Io sì, l'ho fatto...
Poi gli artisti sono usciti dal palco. Allora applausi, grida e fischi della folla per richiamarli. Sono tornati. Ancora due pezzi, prima di salutare tutti. Brani altrui. “La città vecchia” di De André e “Povera patria” di Battiato.
...non cambierà, no cambierà, forse cambierà, sì che cambierà, vedrai che cambierà...
Speriamo. E in meglio.

venerdì 20 marzo 2009

La prima serata a Parma

Eccomi qua, tornata dopo una pausa decisamente lunga.
Nell’ultimo post che avevo scritto parlavo di Obama e del suo discorso alla convention dei democratici.
Bè, ora Obama è il presidente degli Stati Uniti d’America e io in America non ci abito piu’. Sì, mi pare di aver gia’ sottolineato che un gran tempismo non l’ho avuto mai.
Comunque ora vivo a Parma. Baltimora, invece, vive nei miei ricordi.
La vita continua. E mi sembra carino far continuare anche questo blog.
Come? Non lo so ancora. Di certo Parma ci sara’.
E comincerei proprio dal giorno in cui mi sono trasferita nell’appartamento in cui abito attualmente. Dopo aver sistemato i miei bagagli, ho deciso di andare a cena fuori, un po’ perché non avevo voglia di cucinare e un po’ perché mi sembrava una buona occasione per iniziare a scoprire la citta’.
Era un sabato sera e mi andava di mangiare cibo giapponese. Una delle ragazze con cui condivido l’appartamento mi ha detto che c'era un ristorante giapponese non eccessivamente caro al Barilla center. Ho chiesto cosa fosse il Barilla center e lei mi ha spiegato che era una specie di centro commerciale. Normalmente avrei scartato l’opzione a priori, ma in quel caso ho deciso di provare il ristorante giapponese al Barilla center di sabato sera. Credo abbiano influito sulla scelta una lieve componente masochista, il piacere della sfida e l’idea di una certa continuita’ con la mia vita a Baltimora.
È stato quasi buffo scoprire che il Barilla center somiglia piu’ a un mall californiano che non a uno di quelli che si trovano nell’area di Baltimora. La struttura è parzialmente aperta e l’interazione con l’esterno, o anche solo il fatto di respirare aria corrente, rende il luogo meno claustrofobico del tipico mall che si sviluppa completamente al chiuso.
Quel sabato sera il Barilla center pullulava di ragazzini, tutti vestiti in maniera piuttosto ricercata, assolutamente impersonale, ma comunque ricercata. I loro colleghi baltimoresi non avrebbero mai posto tanta cura nell’abbigliamento. Mi correggo, forse certi adolescenti neri sì. Ma quella è tutta un’altra storia.
Prima di arrivare al ristorante giapponese sono passata davanti a un bar dall’arredamento sciccoso, un lounge bar. Ce n’erano anche a Baltimora, è solo che io non li frequentavo e trovo quindi difficile fare un paragone accurato. Credo comunque di non azzardare troppo se dico che gli avventori del lounge bar del Barilla center sembravano appena usciti da una sfilata di moda, se paragonati alla loro controparte americana e forse anche se non paragonati.
Il ristorante giapponese, invece, mi ha fatto attraversare ancora una volta l’oceano Atlantico verso ovest. Un vero pezzo da catena. Arredato in modo essenziale ed economico, con elementi decorativi che sembravano messi lì per ricordare al cliente di stare cenando, appunto, in un ristorante giapponese.
Il cameriere che mi ha servito era un’adolescente nipponico con una splendida acconciatura crestata, che lo faceva assomigliare a un personaggio di un racconto cyber-punk. La cosa mi ha messo totalmente di buon umore e non so se abbia influito in qualche modo sul fatto che mi è venuto istintivo rivolgermi a lui in inglese, nonostante il giovane cyber-cameriere parlasse italiano correttamente. La confusione spazio-temporale mi è passata all’istante, non appena mi sono accorta che i noodles che avevo ordinato erano delle regolarissime linguine di grano duro.
Uscita dal ristorante, sono passata davanti al cinema multisala del Barilla; uno di quelli che puoi trovare in un qualsiasi mall che si rispetti, così come la scaletta di film che era in programma quel sabato sera.
E poi ho visto la libreria del centro commerciale, Feltrinelli, e con una certa sorpresa ho pensato: buffo pero’, nel bel mezzo di Parma c’è la miniatura di un mall californiano, con la Feltrinelli al posto di Borders o Barnes & Nobles.
Appena lasciato il Barilla center, mi ha assalito un desiderio improvviso di sorseggiare qualcosa di caldo. Sì, avrei bevuto volentieri un orzo.
Mentre pensavo a come appagare le mie voglie, mi si è posato lo sguardo su una scritta luminosa in stile liberty: Bar Novecento. Anche le vetrate sulla porta d’ingresso erano decorate con fregi che s’intonavano all’insegna. Ho capito subito che avrei preso lì il mio orzo.
Il bar era arredato in accordo con quanto il suo nome avrebbe lasciato immaginare. I pochi clienti che c’erano davano l’impressione di essere avventori abituali.
Ma l’elemento piu’ interessante di quel luogo d’altri tempi era senza dubbio il barista, una specie di mangiafuoco dall’aspetto curato e perfino elegante, con occhi blu come il mare e imponenti baffi biondi. Ad aiutarlo c’era una giovane donna, anch’essa bionda, con la carnagione pallida e un fare gentile. È stato mangiafuoco a prendere la mia ordinazione. E allora, con un certo stupore, mi sono accorta che era muto. Sì, mi ha servito senza proferire parola, comunicando a gesti ed emettendo di quando in quando suoni gutturali. Mi hanno colpito la sicurezza e la naturalezza che mostrava e soprattutto l’atteggiamento autoritario con cui impartiva ordini alla ragazza bionda.
Nell’incanto del momento avevo gia’ deciso che i due fossero una versione padre/figlia de “La bella e la bestia”. Credo che quella sera io abbia bevuto l’orzo piu’ intenso della mia vita.
E tornando a casa mi sono chiesta con perplessita’ cosa spingesse la gente a preferire il Barilla center a quello splendido caffè dall’atmosfera felliniana. E alla fine ho concluso che, a prescindere dalle preferenze dei singoli, forse è proprio la coesistenza di due luoghi così diversi tra loro a generare la magia.

Ah, mi sono appena ricordata che tra qualche ora iniziera' la primavera.