domenica 31 agosto 2008

Dopo 45 anni...un altro sogno?

L'altra sera ho guardato in TV il discorso di Obama, col quale ha accettato ufficialmente la candidatura a futuro presidente degli USA, quale rappresentante dei democratici. L'evento ha avuto luogo esattamente 45 anni dopo il celeberrimo "I have a dream" del Dr King (come i neri chiamano Martin Luther), tenutosi al Lincoln Memorial a Washington.
Certi paragoni possono risultare scontati e magari superficiali. Sta di fatto che Obama l'altra sera e' stato magnifico. La folla che lo ascoltava nello stadio della lega americana di football a Denver (circa 84000 persone) e' stata per tutta la durata dell'evento letteralmente in delirio. Io ho avuto i brividi (reali) dall'inizio alla fine.
Ecco alcune affermazioni politiche relative alla agenda di Barak che mi sono piaciute.
Lui vuole che gli USA si rendano indipendenti, ragionevolmente entro circa 10 anni, dalle risorse energetiche straniere e che investano su fonti di energia alternative, creando cosi' anche nuovi posti di lavoro nel paese.
Ha pure detto che ridurra' le tasse alle famiglie appartenenti ai ceti piu' bassi (working families) e alle piccole attivita' imprenditoriali. Al contrario, eliminera' gli sgravi fiscali a quelle aziende che esporteranno il lavoro all'estero.
Ovviamente ha parlato di molto altro.
In tanti si domandano se, in caso venga eletto, riuscira' a mantenere le sue promesse.
Chissa'. Vedremo. Intanto prendiamo atto che e' arrivato fino a qui, partendo da una situazione di notevole improbabilita'. Non solo e' lui (a young black everyman) il rappresentante democratico nell'elezione del presidente degli Stati Uniti, ma grazie a lui il partito democratico ha registrato 4 milioni di nuovi iscritti.
Ora, io non credo molto nell'efficienza della rappresentanza politica, almeno a beneficio delle classi sociali piu' basse. I rappresentanti politici istituzionali, anche quelli con le migliori intenzioni, hanno necessariamente un campo d'azione limitato, in sistemi come quello americano o come il nostro. I grandi giochi li gestiscono coloro che detengono il potere economico.
Niente di nuovo, ma purtroppo sempre tremendamente vero.
Ad esempio, leggevo in un'inervista a Chomsky che ultimamente alcune grandi aziende (tipo la General Motors) si stanno rendendo conto che gli costa meno pagare un dipendente in Canada (dove la sanita' e' pubblica) piuttosto che negli USA, dove in genere e' l'azienda a pagare gran parte dell'assicurazione sanitaria dei propri dipendenti. Per questo hanno iniziato a valutare la possibilita' di creare public healthcare anche negli Stati Uniti. E, afferma Chomsky, e' per questo che durante la presente campagna elettorale i candidati democratici hanno potuto affrontare la questione nei loro programmi. Ora, infatti, anche alcune delle grandi corporazioni si stanno muovendo in quella direzione. Per me non fa una piega.
Morale della favola, pure Obama non sara' immune da certi vincoli e limitazioni. Bisognera' vedere come gestira' la sua presidenza (mi auguro che venga eletto). Non mi aspetto miracoli per le ragioni di cui sopra.
Di certo, pero', finora ha fatto bene un bel po'.
Che sia una questione di personalita' e di carisma? Indubbiamente, ma non solo.
Secondo me lui crede in quello che dice e in quello che fa.
Mi e' piaciuto quando ha dichiarato "This election is not about me. It's about you, the American people." E anche quando ha detto "America, we are better than these last 8 years. We are a better country than this." E poi quando ha citato "The moving forward that pushes us even when the path is uncertain".
Mi ha fatto persino ridere con un'affermazione sul suo avversario, "It's not that McCain doesn't care. He doesn't get it." Forse perche' a me e' venuto da tradurre automaticamente come qualcosa tipo "Non e' che McCain sia cattivo. E' proprio scemo."
Insomma, Barak Obama sembra avere la capicita' di muovere gli animi della gente. Mi pare che sia stato in grado fino ad oggi di scuotere un discreto numero di americani dalle loro esistenze robotiche.
Che dire, io lo vedo come un inizio. Voglio pensare che lo sia.
Proprio questa sera ho beccato per puro caso in TV l'episodio di Saturday Night Live a cui lui ha partecipato. Non sapevo niente della cosa e quando l'ho visto per un attimo mi ha spiazzata. Poi ho pensato "che tipo che e'!" e me lo sono immaginato ospite da Luttazzi...chiaramente quando ancora c'aveva il programma.
Il video merita comunque, anche perche' c'e' Amy Poehler che fa Hillarona.
Una sottigliezza che puo' dirla lunga.
Credo che Barak non abbia completato la battuta finale, dicendo "It's Saturday night" invece di "It's Saturday night live".
Forse questo vuol dire che a stare sulla scena si emoziona pure lui...quando si tratta di recitare :)
Invece, per tornare a McCain che non e' cattivo ma scemo e per riallacciarmi ad una questione sollevata da Barbara nel suo blog, "Perche' McCain ha scelto Sarah Palin?", allego un pezzo trovato su Wonkette (blog satirica di Washington) dal titolo "John McCain Is Ruining Sarah Palin's Life". Hilarious.

Concludo augurando lunga vita a Barak, che come ci ha ricordato Barbara, sa pure ballare :)

sabato 23 agosto 2008

Lo slargo di Rolling road, le sorprese e...Sandor

Oggi pomeriggio sono andata a spedire i documenti per fare domanda per il lavoro a Parma. Ero nervosa perche’ in ritardo notevole. Come sempre, del resto. Sono andata da FedEx, non essendo neanche sicura che quel negozio in particolare facesse spedizioni internazionali. Avrei potuto verificarlo prima, ma per qualche perverso meccanismo, mi riduco sempre all’ultimo minuto, specialmente in situazioni importanti.
Il negozio FedEx dove sono andata oggi lo associo al ragazzo che ho frequentato negli ultimi mesi. Una domenica mattina io ero appena uscita dallo Starbucks adiacente e lui era appena uscito da FedEx. Mi ha fermata, abbiamo iniziato a parlare e alla fine della conversazione ci eravamo scambiati le email. Da quella volta ci siamo frequentati per un po’ di tempo. Nulla di strano. Anzi, assolutamente normale. Le persone qui si incontrano in questo modo. I ritmi di vita sono talmente serrati e ciascuno e’ cosi’ assorbito dalla propria lista di cose da fare (la famosa “schedule”) che non rimane tempo per conoscere persone nuove. Risultato: le amicizie si fanno al lavoro o nell’ambito di attivita’ extra-lavorative o letteralmente al supermercato...oppure nei parcheggi, come nel mio caso. Da noi suonerebbe magari un po’ squallido, ma qua non lo e’ di certo. It’s just the way it is. Dinamiche differenti.
Dopo quell’evento inaspettato, per me la FedEx di Rolling road ha un valore speciale. Il ragazzo con cui sono stata non c’entra per nulla in tutto cio’. Non lui in particolare, almeno. Quella zona ormai la associo al concetto di sorpresa, di accadimento inatteso portatore di energia nuova.
L’aver concluso l’impresa della spedizione dei documenti via FedEx mi ha decisamente risollevata dall'ansia del -e adesso se non ce la faccio?-. Cosi’ ho deciso di concedermi un “unsweetened green iced tea” e sono entrata da Starbucks.
Una volta acquistato il te', mi sono seduta ad un tavolino, sotto il portico all’aperto. C’e’ da dire che la visuale li’ e’ piuttosto terribile. Un prato all’inglese separa la caffetteria da uno stradone a tre corsie, generalmente molto trafficato, oltre il quale, a quell’altezza, si trova il Double T, un tipico diner di periferia.
All’inizio quel genere di scenario mi deprimeva profondamente. Ora, che mi sono abituata ai paesaggi urbani e suburbani di Baltimora, sedere di tanto in tanto davanti allo Starbucks di Rolling road ha su di me un effetto rilassante.
Mentre sorseggiavo il mio te’ verde totalmente immersa nel momento, ho visto arrivare un ragazzo con uno splendido cucciolo di cane al guinzaglio. Il ragazzo sembrava ubbidire totalmente ai desideri del piccolo amico, il quale ha deciso (opportunamente) di stazionare sulla parte di prato vicina a me. Abbiamo iniziato a parlare; io e il tipo (di nome Dan), io al cane. Ho scoperto che il piccoletto si chiamava Sandor e che aveva appena undici settimane. Sembrava un po’ intontito, come se ogni pochi minuti avesse bisogno di sedersi e riposare. Dan mi ha spiegato che proprio ieri gli aveva fatto un qualche vaccino. Io e Sandor siamo diventati subito amici. Abbiamo interagito in modo buffo e secondo un andamento ciclico, probabilmente a causa dell’effetto stordente del vaccino. Si trattava in pratica di giocare un po’, poi lui si riposava, rimanendo sempre vicino a me, e magari si faceva fare qualche coccola. Dopodiche' si ricominciava da capo.
Ad un certo punto, il ragazzo mi ha chiesto se poteva lasciarmi il cucciolo per un paio di minuti mentre lui entrava nella caffetteria a consumare. A me, ovviamente, non e’ parso vero. Sandor sembrava contentissimo di essere rimasto in mia compagnia, tanto che persino i suoi ritmi di gioco si sono un po’ movimentati. Poi pero’ ha dovuto fare di nuovo una pausa e allora io ne ho approfittato per scattargli delle foto.
A quel punto Dan e’ uscito da Starbucks e io ho deciso che era ormai tempo di andar via. Ci siamo salutati, lui mi ha ringraziata e Sandor continuava a fissarmi con lo sguardo piu’ dolce del mondo.
Camminando verso la mia macchina, con un umore piuttosto sereno, ho pensato a quanto era successo. Lo slargo di Rolling road mi aveva regalato di nuovo una piacevole sorpresa.
Ora, pero’, il mio ritorno in Italia sembra essere nell’aria.
Signore e signori, questo e’ Sandor...




domenica 10 agosto 2008

The edge of heaven...at the Charles Theatre

Ieri sera sono andata al cinema. Il Charles Theatre e’ una delle cose di Baltimora che amo di piu’. E’ un cinema dove vengono proiettati ottimi film d’essais e, soprattutto, e’ un business locale. Non so bene chi lo gestisca, ma di sicuro appartiene alla citta’ di Baltimora dal 1939 ed e’ riuscito, in tutti questi anni, a tenere testa alla spietata concorrenza delle catene multisala. Il locale secondo me e’ bellissimo. Venne disegnato alla fine del 1800 per essere, almeno inizialmente, deposito per tram in un'ala e centrale elettrica nell'altra. Ebbene, conserva ancora oggi l’atmosfera di entrambi. Sul piano delle associazioni affettive, il Charles mi fa pensare al Modernissimo e allo Zenit; ma la struttura architettonica, che richiama gli echi degli urban workers che ci lavoravano nella prima meta’ del ‘900, gli conferisce un’individualita’ tutta speciale.
Sono andata a vedere The edge of heaven, l’ultimo lavoro di Fatih Akin.
Del regista turco-tedesco ho visto sia La sposa turca che Crossing the bridge ed entrambi, col loro linguaggio crudo ma poetico, mi sono piaciuti moltissimo.
Non vedevo l’ora di avvicinarmi al cielo :)
The edge of heaven e’ una storia di frontiere (geografiche, temporali, politiche, metaforiche) che vengono attraversate piu’ o meno ripetutamente o, alcune volte, con viaggio di sola andata. Gli eventi (semplici e in certi casi semplificati all’estremo) si susseguono secondo un andamento non lineare o, piuttosto, rizomatico. La morte e’ un elemento centrale.
Quanto ho scritto finora potrebbe far pensare che ieri abbia visto un film meraviglioso. Purtroppo ritengo che non sia cosi’. The edge of heaven e’ molto bello, ma ha delle imperfezioni decisamente non trascurabili. Peccato, perche’ gli ingredienti sembravano esserci tutti.
Credo che la sua debolezza principale sia l’eccessiva sfumatura dei toni, che si traduce inevitabilmente in mancanza di incisivita’. Per quasi tutto il tempo si ha come l’impressione di essere sospesi in un limbo e di venire trasportati in moto libero dagli eventi stessi. Per un po’ la sensazione e’ persino piacevole; si’, decisamente piacevole. Poi, pero’, ci si aspetta che la fluttuazione si interrompa e che si inizi a prendere quota. Questo purtroppo non avviene mai. Nemmeno nel finale. Tanto meno nel finale. In The edge of heaven il cielo si vede solo da lontano, forse un po’ troppo da lontano.
In una struttura rizomatica i vari nodi dovrebbero avere vita autonoma, dovrebbero essere indipendenti gli uni dagli altri e dalla radice che li ha generati. In questo film cio’ non succede. I nodi mancano di luce propria.
Per carita’, il lirismo anarcoide di Akin e’ sempre di ottima qualita’. Splendide immagini, musica eccellente, recitazione buona ci accompagnano per tutta la durata della pellicola.
C’e’ solo una cosa che letteralmente mi sfugge e che davvero non so come interpretare. Volutamente non ho fatto il minimo accenno alla trama (che comunque potete leggere nel sito accessibile dal link), ma in questo caso mi tocca fare un’eccezione. Non me ne vogliate.
Come diavolo fa Ayten a uscire di galera??? Forse facendo la spia???
Spero di aver capito male, perche’, se cosi’ non fosse, quello costituirebbe per me un enorme buco nero, nel quale e dal quale l’intero film verrebbe inesorabilmente risucchiato. E si’, per la miseria, qualunque tipo di evoluzione del personaggio sarebbe accettabile, che si concordi o meno. Ma la delazione, unica via percorribile per attuare il processo di cambiamento, no, mi dispiace non gliela posso lasciar passare. Finzione per finzione, ad Akin potevano venire in mente almeno un paio di idee migliori.
Resta la possibilita’ che io possa aver frainteso. Anche in questa circostanza, pero’, Akin non se la cava. Un dubbio del genere, infatti, non puo’ essere lasciato. Pena, la delusione dello spettatore (be'...sicuramente la mia).
Quando si sono accese le luci nella sala ho notato le quattro ragazze che erano sedute nella fila di fronte a me. Giovani americane, probabilmente compagne di college. Alzandosi, le tipe hanno iniziato a commentare, o meglio, a esprimere sinteticamente il loro disappunto.
Una ha detto con tono piuttosto seccato: “ Va bene, vuol dire che ho sprecato 8 dollari.” Le altre hanno annuito.
Istantaneamente mi sono chiesta se le quattro ragazzette fossero state deluse dalle debolezze del film, che anche io avevo notato, pur apprezzandone gli innumerevoli aspetti positivi o se semplicemente non avessero capito nulla e fossero state sopraffatte dalla organizzazione non lineare della storia e dai suoi toni non convenzionali (ripensandoci, mi auguro che non siano state infastidite dai riferimenti anticapitalistici).
Non ho paura di ammettere che, dopo quasi quattro anni di vita in questo paese, tendo a propendere per la seconda ipotesi.
Perdonate l’arroganza.
Sarei immensamente felice di sbagliarmi :)

mercoledì 6 agosto 2008

Zinn su Obama e le elezioni in America

Qualche giorno fa Serena ha sollevato la questione Obama. Barbara ed io abbiamo espresso il nostro parere sull'argomento. Ieri, graziosa coincidenza, ho trovato un articolo di Howard Zinn sulla frenesia elettorale in America e, poco dopo, una lettera aperta a Obama, che lo stesso Zinn ha recentemente sottoscritto. Mi sono piaciuti tanto tutti e due...

giovedì 24 luglio 2008

La deportazione di Bisbee. Dal movimento operaio alla liberta' di movimento quale forma di creativita' e arte.

Un paio di sabati fa, precisamente il 12 luglio, sono andata a vedere una rappresentazione che ricordava la “Deportazione di Bisbee”. Non avevo mai sentito parlare di quell’evento, ma quanto ho letto nel sito web dello spettacolo mi ha decisamente convinta ad andarlo a vedere e, da “old geek” (tradurrei liberamente “vecchia secchioncella”) quale sono, mi ha anche invogliata a documentarmi sull’argomento.
Cerchero’ di riassumerlo brevemente.
Esattamente il 12 luglio 1917, a Bisbee (Arizona) circa 1300 minatori in sciopero, che si opponevano alle condizioni ingiuste a cui venivano sottoposti dai padroni della locale miniera di rame, insieme ad alcuni loro sostenitori e ad altri cittadini, semplici osservatori della manifestazione, vennero deportati a forza su un treno, che li trasportasse lontano dalla cittadina, e trattenuti per 16 ore nel deserto, senza cibo o acqua. Il gruppo di rapiti venne poi rilasciato in New Mexico, senza soldi o alcun mezzo di trasporto, e gli fu impedito con minacce di tornare a Bisbee. Successivamente fu istruita una serie di processi; la deportazione venne riconosciuta illegale e alcuni tra gli esecutori vennero arrestati. Nel 1920, pero’, il giudice Edward D. White dichiaro’ (con una maggioranza di 8 a 1) che nessuna legge avrebbe protetto la liberta’ di movimento e che tutelare i diritti dei cittadini sarebbe stata solo una funzione dello Stato. I deportatori accusati vennero, percio’, prosciolti e rilasciati. Da notare che i minatori in sciopero facevano parte dell’IWW (Industrial Workers of the World), movimento operaio statunitense, nato quando ai lavoratori, specialmente se immigrati, non era riconosciuto alcun diritto. Uno degli attivisti dell’IWW, conosciuti anche come Wobblies, fu Joe Hill. Di origine svedese, Hill divenne noto per aver scritto inni politici e poemi di satira. Dopo essersi spostato in varie citta’ americane, cercando di organizzare i lavoratori a nome dell’IWW, egli fu accusato ingiustamente di omicidio e condannato a morte. Il processo e la condanna di Hill suscitarono molte controversie e suoi sostenitori avanzarono l’ipotesi della manovra politica, volta ad eliminare un personaggio scomodo, considerato elemento di disturbo, in quanto membro attivo dell’IWW. Durante la mia full immersion nello studio della deportazione di Bisbee e degli eventi ad essa collegati, ho anche scoperto che Joan Baez e Billy Bragg hanno dedicato a Joe Hill ciascuno una canzone.
Questo video sul brano di Bragg mi sembra particolarmente carino:

Se da un lato gli Wobbles e l’IWW rappresentarono il movimento operaio americano per eccellenza, la deportazione di Bisbee, col suo triste epilogo, costituì un precedente, in seguito al quale, negli anni a venire, molti politici americani considerarono la deportazione una misura perfettamente legale, che fu poi usata con una certa regolarita’. Nel 1954, ad esempio, venne creato un programma (Operation Wetback), in risposta ad un incremento nel fenomeno dell’immigrazione, che permise la deportazione di 1,300,000 lavoratori messicani.
Quando ho letto questo dato, ho pensato a tutta una serie di sfumature piuttosto insidiose che la deportazione ha assunto nel presente in questo paese. Ad esempio, col mio visto J-1, se dovessi essere licenziata dal mio datore di lavoro, avrei circa una settimana di tempo per trovarmi un altro impiego, un altro sponsor e quindi un altro visto. Se fallissi nell’impresa, sarei ufficialmente dichiarata illegale e quindi legalmente deportabile (avevo incastonato la parola tra virgolette, ma poi le ho tolte...meaning, l’uso del termine e’ LETTERALE).
L’avete visto il film “The visitor”? Davvero molto bello. Se non lo avete fatto, guardatelo...
Ma torniamo alla rappresentazione che sono andata a vedere. Ve ne voglio parlare un po’, anche per rendere merito a quello che di buono (forse dovrei aggiungere “secondo me”) ho trovato in questa mia avventura americana.
Lo spettacolo si e’ svolto in una stanza relativamente piccola; esattamente un laboratorio culturale chiamato The Red Room. La stanza rossa è un posto piuttosto interessante, gestito da un collettivo di musicisti/artisti, il cui scopo e’ quello di esplorare percorsi culturali di sperimentazione radicale. Principalmente vengono ospitati concerti di musica d’improvvisazione, ma di quando in quando e’ possibile trovarvi anche rappresentazioni di genere piu’ ampio. Riparlero’ in un’altra occasione della Red Room e del fermento culturale che le gravita intorno. Penso che ne valga la pena.
Lo spettacolo, che prendeva spunto dalla deportazione di Bisbee, cogliendo quanto di positivo si potesse associare all’evento, aveva come tema di fondo la liberta’ di movimento.
Il tutto era strutturato in quattro sezioni. Durante la prima, due musicisti (chitarra elettrica e clarinetto) si sono esibiti in un pezzo di improvvisazione, in una condizione di limitata capacita’ sensoriale (o piu’ precisamente bendati). Musica estremamente difficile da descrivere e di ascolto non immediato, ma senz’altro molto coinvolgente...almeno dopo i primi minuti di riscaldamento. :)
Nella seconda parte dello spettacolo e’ stato proiettato un cortometraggio muto, che combinava immagini di vita in un campo di concentramento giapponese durante la seconda guerra mondiale. La colonna sonora avremmo dovuto crearla noi del pubblico, emettendo dei suoni liberamente ispirati dalla visione del film. Superata la fase iniziale, in cui mi veniva da ridere da non poterne piu’, devo ammettere che l’esperienza si e’ rivelata realmente liberatoria e piuttosto intensa.
Nella terza sezione dello spettacolo, due musicisti (uno con chitarra acustica, l’altro con uno strumento che non avevo mai visto, a meta’ tra una piccola lira ed un benjo) hanno suonato e cantato quattro inni composti da Joe Hill. Ho cercato di prestare attenzione ai testi e, da quel poco che ho potuto carpire, mi sono sembrati particolarmente semplici. Nonostante cio’, ho trovato questa parte dell’esibizione molto energizzante...soprattutto avendola vista dopo le prime due :)
La quarta ed ultima parte dello spettacolo costituiva il momento ludico della rappresentazione. In pratica, si trattava di una cosa analoga al ballo della scopa o al gioco della patata bollente, solo che, credo per rimanere legati al tema del libero movimento, in questo caso noi del pubblico avremmo dovuto circolare “liberamente” tra le sedie, mentre i musicisti continuavano a suonare. Nel momento in cui la musica si fosse interrotta, tutti avrebbero dovuto sedersi e uno solo sarebbe rimasto senza sedia. Mi e’ sembrato di capire che il malcapitato dovesse poi, quale pegno da pagare, unirsi ai musicisti nella performance. Non avendo ben chiaro di cosa si trattasse, ma soprattutto, visto che non vado pazza per questo tipo di situazioni, in cui c’e’ la possibilita’ che io mi trovi al centro dell’attenzione pubblica, ho deciso di interrompere lì la mia esperienza con la libertà di movimento e di abbandonare la stanza rossa. Va da se’ che non potro’ raccontarvi la fine della storia.
Sorry...
:)

giovedì 10 luglio 2008

4 Luglio 2008 o l'indipendenza dai crociati



Il mio problema e’iniziare. Non so mai come farlo. Vorrei dire un mucchio di cose contemporaneamente ed e’ difficile dare una priorita’.
Il concetto si applica alla mia vita in generale, ma ora ne faccio menzione perche’ sto iniziando questo blog.
Attualmente vivo negli Stati Uniti: Baltimore, MD...come dicono gli americani. Una lunga storia, ma ufficialmente sto qui perche’ faccio ricerca.
Sei giorni fa era il 4 luglio. Si’, e’ vero, lo era in tutto il mondo, ma qui la data ha un valore particolare. E’ una festa federale e ricorda la dichiarazione di indipendenza della confederazione dalla Gran Bretagna.
A me personalmente stanno piu’ simpatici gli inglesi che gli americani, ma l’indipendenza da una qualunque forma di dominio non voluto suona giusta di per se’.
Non sono sicura su quanto gli americani siano consapevoli di quale evento la data ricordi, ma per loro e’ un’occasione per rilassarsi insieme a familiari o amici (o in certi casi a entrambi), dilettandosi in picnic e barbeque per tutto il giorno. E poi alla sera, stracolmi di cibo e probabilmente brilli, si concentrano religiosamente a guardare i fuochi d’artificio.
E si’, mi sa che piu’ o meno di questo si tratta.
Io non sono mai stata attratta dalle celebrazioni ufficiali. Non so se per via di quello spirito di contraddizione che mi caratterizza da sempre o per cos’altro, ma generalmente durante le ricorrenze ho un umore pessimo e mi annoio piu’ che nei giorni normali.
In linea con quanto appena detto, l’anno scorso il 4 luglio ho lavorato e, mentre stavo tornando a casa, verso le 8 di sera, ho avuto un incidente con la macchina.
No, nulla di molto serio. Lo cito solo per avvalorare la mia affermazione.
Quest’anno, pero’, ho deciso di dare un’occhiata a quello che succedeva in giro e cosi’ sono andata all’Inner Harbor, che sarebbe la zona dove la gente (turisti e locali) passeggia a Baltimora.
Bene, due parole sugli “strusci”, cioe’ i luoghi di passeggio nei centri urbani.
Direi che di solito sone aree popolate da visitatori e da tutti gli abitanti del luogo che hanno qualcosa da mostrare o, eccezionalmente, da osservare.
Nei casi sporadici in cui li frequento (gli strusci), lo faccio per lo piu’ con intenti voyeristici.
L’Inner Harbor di Baltimora e’ uno struscio esteticamente gradevole, sia da un punto di vista paesaggistico (potete dare un’occhiata alle foto allegate) che da quello della tipologia umana che lo popola. Forse dovrei precisare che il 70% degli abitanti di Baltimora sono afro-americani e che io ho un’inclinazione particolare verso quella razza (in questo caso non ho allegato foto perche’ ho avuto un po’di pudore a scattarle).



Il 4 luglio 2008 a Baltimora e’ stata una giornata grigia con piogge sparse. Ora che ci penso, le stesse condizioni metereologiche si sono verificate anche il 4 luglio 2007 (l’incidente l’ho fatto perche’ c’era la strada bagnata...va be’, anche perche’ andavo un po’ veloce).
Nonostante il tempo poco invitante, quando sono arrivata all’Harbor ho trovato una folla piuttosto corposa.
Mi aspettavo eventi artistici e musicali un po’ diffusi, ma mi sbagliavo.
L’unico evento musicale? Una banda come quelle che si possono trovare alle sagre di paese da noi, pero’ coi musicisti vestiti come degli ufficiali di marina.
L’evento artistico, invece, si e’ rivelato un’interessante sorpresa.
Un gruppo di ragazzini bianchi (il piu grande avra’ avuto 15 anni) si sono esibiti in numeri di step al suono di brani hip hop e r&b. Che i giovani artisti appartenessero a una qualche associazione, si poteva dire dalle magliette tutte uguali che indossavano. Quale fosse il gruppo di appartenenza, pero’, sembrava difficile da decifrare.
Non e’ che fossero bravi, ma l’intera coreografia metteva di buon umore.
Mentre li guardavo divertita, non ho potuto far a meno di notare quanto coraggiosi fossero questi ballerini. Infatti, mi sfuggiva il motivo che avesse indotto un gruppo di dilettanti stepper caucasici a mostrare la loro danza un po’ goffa open air in una citta’ dove il 70% della popolazione e’ costituita da neri, che chiaramente hanno impresso nei geni un naturale talento per ogni tipo di movimento ritmico e che nella maggioranza ballano lo step magistralmente. (Devo confessare di aver conosciuto un paio di esempi appartenenti alla restante minoranza, meaning by that neri che non sanno ballare, ma si sa che ogni regola ha la sua eccezione e io ho un fiuto eccezionale...per le eccezioni).
Un inciso. Baltimora e’ una citta’ che da sempre e’ stata dilaniata da un’enorme segregazione raziale. Negli anni molte fratture sono state parzialmente sanate, ma tutt’ora esiste una netta separazione tra bianchi e neri, che, rispetto al passato, ha assunto una connotazione molto piu’ complessa e sfaccettata e probabilmente meno immediata da percepire.
Per ora non mi soffermero’ su questo argomento, ma ho voluto introdurlo per motivare lo stupore suscitato in me dai giovani stepper bianchi.
Bene, ad un certo punto un adulto, evidentemente il capogruppo degli adolescenti ballerini, ha preso il microfono ed ha annunciato che i ragazzi si sarebbero esibiti in una breve rappresentazione musicale per mezzo della quale avrebbero narrato una storia. Proprio in quel momento e’ iniziato a piovere. Ho pensato, allora, che non avremmo mai visto il misterioso musical. Invece no. Lo stesso adulto ha detto che noi spettatori ci potevano accomodare sotto il patio, dove i ballerini avrebbero dovuto danzare se non fosse piovuto, e che i ragazzi avrebbero ballato per noi sotto la pioggia. Detto fatto. Con una tenacia troppo perfetta per essere vera, la giovane truppa ha iniziato l’esibizione, sotto una pioggia non torrenziale ma costante.
Il piccolo musical si e’ rivelato davvero molto carino. In pratica si e’ trattato di un’esibizione di mimi, che hanno raccontato una storia, su una base musicale molto bene arrangiata. La pioggia ha paradossalmente arricchito la coreografia.
La trama non e’ che fosse chiarissima, ma quel certo margine lasciato all’immaginazione sembrava rendere il tutto piu’ accattivante.
Nel mezzo della rappresentazione e’ successo un fatto strano. Un ragazzino nero e’ improvvisamente scattato dal pubblico e si e’ unito agli artisti, integrandosi perfettamente nel loro numero di danza. L’evento mi ha fatto pensare a Hairspray di John Waters (quello originale, non il remake) e mi ha tremendamente energizzata. Nonostante anche gli spettatori sembrassero divertiti dall’improvvisazione, il capogruppo dei ragazzini e’ intervenuto ed ha allontanato l’estemporaneo artista con dei modi a mio avviso piuttosto sgarbati. Nessuno si e’ mostrato infastidito dall’intervento di stampo militaresco, come se io fossi l’unica ad averlo notato.
Alla fine dello spettacolino tutti hanno applaudito con entusiasmo, io inclusa. A quel punto, il capogruppo/coreografo o che altro, ha incominciato a spiegare la trama della rappresentazione. La cosa mi e’ sembrata piuttosto fuori luogo e l’ho automaticamente aggiunta alla lista virtuale di starnezze, che avevo finora annotato nella mia testa.
Poi, di colpo, l’illuminazione.
Il musical di mimi era di fatto una versione moderna di una parabola del Nuovo Testamento e la morale della storia (esplicitata piu’ o meno come la sto riportando) era: nulla ha senso in questa vita e qualunque scelta si compia portera’ solo disperazione e fallimento, a meno che ogni azione non sia fondata sulla fede e sulla totale devozione verso dio.
La piccola compagnia di artisti era un gruppo religioso in trasferta dalla Pensilvania. Il capogruppo (che a questo punto posso definire, predicatore) ha continuato invitando il pubblico ad una discussione sul tema e dicendo che tutti dovevano sentirsi liberi di fare domande; lui e i ragazzi sarebbero stati felici di dare risposte.
Io ero esterrefatta, ma (volendo guardare il rovescio della medaglia) ora la mia lista di stranezze aveva finalmente un senso.
Appena mi sono riavuta dallo shock, sono scappata a gambe levate. Ero pervasa da un senso di fastidio (credo mi sentissi manipolata per aver gustato lo spettacolino prima di sapere) misto a paura. Si’, la religione, o dovrei dire le molte e variegate religioni, sono da sempre un elemento dominante della societa’ americana (persino Obama ha dovuto e deve farci tuttora i conti...), ma dopo il 4 luglio 2008 mi tocca prendere atto che i nuovi crociati stanno davvero affinando le armi...o almeno ci provano.
Scary!!!