martedì 23 giugno 2009

Una maglietta, per caso.

Questa mattina ho visto, esposta nella vetrina di un negozio di Parma, una maglietta con su scritto:
“ALL WE NEED IS SOMEONE TO KISS US GOODBYE”.
Mi sono fermata e ho riletto. Per essere sicura. No no, non avevo sbagliato.
Allora ho pensato: -Ma davvero stanno cercando di dirmi che tutto cio’ di cui ho bisogno e’ qualcuno che mi dia un bacio d’addio?-
Ho continuato a riflettere per un po’. Perche’ quest’affermazione non e’ che sia poi cosi’ scontata.
Dopo vari tentativi, fatti per capire il senso della scritta, ho pensato alla morte. E a tutti coloro che non hanno avuto la possibilita’ di darmi un bacio d’addio prima di andarsene per sempre. Troppi.
Chissa’, forse e’ vero il contrario. Magari l’assenza di quel saluto estremo e’ un picchetto simbolico, piantato per assicurarmi che la porta d’accesso alla nicchia dei ricordi non si chiuda mai; per fare in modo che nessuno scompaia davvero per sempre.
E mi chiedo se lo stilista sconosciuto, quando ha scelto di decorare la sua maglietta con quella frase, si sia reso conto che un giorno avrebbe indotto tale flusso di pensieri in una passante, che per caso l’avesse notata.
"MESSAGE ON A T-SHIRT FLOATING IN THE OCEAN OF CONSUMERISM".
Questa e’ la frase che stamperei su una maglietta. Adesso.

domenica 26 aprile 2009

Il concerto della Liberazione a Parma

Ieri era il 25 aprile e io ero a Parma.
Parma e' stata liberata dall'occupazione nazi-fascista il 26 aprile 1945, ma ieri ha festeggiato la Liberazione come il resto dell'Italia.
Io non stavo tanto bene e così sono rimasta a casa per tutto il giorno. La sera, però, malgrado i malanni, sono voluta andare a vedere il Concerto della Liberazione in piazza Garibaldi. Là ho incontrato un amico, G., il quale mi ha raccontato un fatto che gli è appena capitato. Lui è della Costa D’Avorio, ma vive a Parma da nove anni. G. ha ottenuto un regolare permesso di soggiorno, che però non gli è ancora stato recapitato. Quindi temporaneamente possiede un documento sostitutivo che certifica la sua regolarità nel nostro paese. Ho pensato ad una specie di foglio rosa, quello che danno ai neo-patentati finché non gli arriva la patente. Bene, per le vacanze di Pasqua G. parte per un viaggio in macchina in direzione di Parigi con un suo amico, anche egli regolare ma con foglio sostitutivo. I due vengono fermati poco dopo aver superato la frontiera con la Francia. La polizia gli comunica che i loro documenti non gli consentono di lasciare l’Italia...in seguito ad una legge uscita un mese prima. Loro dicono di aver controllato a febbraio la validità del documento ai fini del viaggio e di non sapere nulla della nuova legge. La polizia verifica la loro situazione legale. Tutto in regola...fino a questo ultimo reato involontario. G. e il suo amico non vengono fatti rientrare in Italia, come verrebbe naturale supporre. No, la procedura prevede che loro passino la notte della vigilia di Pasqua in prigione e che siano rilasciati solo l’indomani...con tanto di Buona Pasqua!!! Per un errore ingenuo i due ragazzi, trattati come clandestini in fuga, sono rientrati in Italia con una complicazione aggiunta alla loro condizione già precaria.
Il racconto del mio amico mi ha rattristato parecchio. Questo sarebbe un mondo liberato? Non secondo me. Piuttosto “RESISTENZA” mi pare un concetto tornato ad essere di estrema attualità.
Il concerto, però, è stato bello. Piazza Garibaldi era gremita. Un energetico Capossela ha cantato, ballato e letto poesie. E non era solo. Anzi, era in ottima compagnia. Lo hanno interrotto un monologo di Neri Marcorè e uno di Alessandro Bergonzoni (entrambi decisamente brillanti). Poi è entrato sul palco con la sua sedia, un berretto rosso e la barba importante, il cantastorie anarchico Enzo Del Re, che ha cantato per un tempo abbastanza lungo...e soprattutto con lentezza. Parte della folla mi è sembrata sorpresa e forse anche delusa dalla presenza di Del Re. Dopotutto loro erano lì per Capossela. Non erano soli, però, c’erano pure gli altri. Quelli che sapevano chi fosse Del Re e che lo hanno applaudito con vigore.
Poi un’altra bella sorpresa. I Fiati Sprecati, una banda popolare di strada. Quanto mi piacciono queste “marching bands”. A Baltimora ne avevo vista una, la Rude Mechanical Orchestra, che si era esibita in una radura sotto un ponte della città. Il loro concerto lo avevano concluso suonando Bella Ciao e io ero al settimo cielo...per ovvi motivi. Ieri sera anche i Fiati Sprecati hanno chiuso la loro esibizione con Bella Ciao. In questo caso non ero altrettanto stupita come per via della Rude Mechanical Orchestra, ma l’energia del momento mi ha comunque caricata incredibilmente.
Dopo i Fiati è tornato Vinicio. Lui ha concluso il concerto con “All’una e trentacinque circa”, aiutato da Marcorè. I miei vicini di piazza questa volta non hanno cantato. Forse non conoscevano i pezzi più vecchi di Capossela. Io sì, l'ho fatto...
Poi gli artisti sono usciti dal palco. Allora applausi, grida e fischi della folla per richiamarli. Sono tornati. Ancora due pezzi, prima di salutare tutti. Brani altrui. “La città vecchia” di De André e “Povera patria” di Battiato.
...non cambierà, no cambierà, forse cambierà, sì che cambierà, vedrai che cambierà...
Speriamo. E in meglio.

venerdì 20 marzo 2009

La prima serata a Parma

Eccomi qua, tornata dopo una pausa decisamente lunga.
Nell’ultimo post che avevo scritto parlavo di Obama e del suo discorso alla convention dei democratici.
Bè, ora Obama è il presidente degli Stati Uniti d’America e io in America non ci abito piu’. Sì, mi pare di aver gia’ sottolineato che un gran tempismo non l’ho avuto mai.
Comunque ora vivo a Parma. Baltimora, invece, vive nei miei ricordi.
La vita continua. E mi sembra carino far continuare anche questo blog.
Come? Non lo so ancora. Di certo Parma ci sara’.
E comincerei proprio dal giorno in cui mi sono trasferita nell’appartamento in cui abito attualmente. Dopo aver sistemato i miei bagagli, ho deciso di andare a cena fuori, un po’ perché non avevo voglia di cucinare e un po’ perché mi sembrava una buona occasione per iniziare a scoprire la citta’.
Era un sabato sera e mi andava di mangiare cibo giapponese. Una delle ragazze con cui condivido l’appartamento mi ha detto che c'era un ristorante giapponese non eccessivamente caro al Barilla center. Ho chiesto cosa fosse il Barilla center e lei mi ha spiegato che era una specie di centro commerciale. Normalmente avrei scartato l’opzione a priori, ma in quel caso ho deciso di provare il ristorante giapponese al Barilla center di sabato sera. Credo abbiano influito sulla scelta una lieve componente masochista, il piacere della sfida e l’idea di una certa continuita’ con la mia vita a Baltimora.
È stato quasi buffo scoprire che il Barilla center somiglia piu’ a un mall californiano che non a uno di quelli che si trovano nell’area di Baltimora. La struttura è parzialmente aperta e l’interazione con l’esterno, o anche solo il fatto di respirare aria corrente, rende il luogo meno claustrofobico del tipico mall che si sviluppa completamente al chiuso.
Quel sabato sera il Barilla center pullulava di ragazzini, tutti vestiti in maniera piuttosto ricercata, assolutamente impersonale, ma comunque ricercata. I loro colleghi baltimoresi non avrebbero mai posto tanta cura nell’abbigliamento. Mi correggo, forse certi adolescenti neri sì. Ma quella è tutta un’altra storia.
Prima di arrivare al ristorante giapponese sono passata davanti a un bar dall’arredamento sciccoso, un lounge bar. Ce n’erano anche a Baltimora, è solo che io non li frequentavo e trovo quindi difficile fare un paragone accurato. Credo comunque di non azzardare troppo se dico che gli avventori del lounge bar del Barilla center sembravano appena usciti da una sfilata di moda, se paragonati alla loro controparte americana e forse anche se non paragonati.
Il ristorante giapponese, invece, mi ha fatto attraversare ancora una volta l’oceano Atlantico verso ovest. Un vero pezzo da catena. Arredato in modo essenziale ed economico, con elementi decorativi che sembravano messi lì per ricordare al cliente di stare cenando, appunto, in un ristorante giapponese.
Il cameriere che mi ha servito era un’adolescente nipponico con una splendida acconciatura crestata, che lo faceva assomigliare a un personaggio di un racconto cyber-punk. La cosa mi ha messo totalmente di buon umore e non so se abbia influito in qualche modo sul fatto che mi è venuto istintivo rivolgermi a lui in inglese, nonostante il giovane cyber-cameriere parlasse italiano correttamente. La confusione spazio-temporale mi è passata all’istante, non appena mi sono accorta che i noodles che avevo ordinato erano delle regolarissime linguine di grano duro.
Uscita dal ristorante, sono passata davanti al cinema multisala del Barilla; uno di quelli che puoi trovare in un qualsiasi mall che si rispetti, così come la scaletta di film che era in programma quel sabato sera.
E poi ho visto la libreria del centro commerciale, Feltrinelli, e con una certa sorpresa ho pensato: buffo pero’, nel bel mezzo di Parma c’è la miniatura di un mall californiano, con la Feltrinelli al posto di Borders o Barnes & Nobles.
Appena lasciato il Barilla center, mi ha assalito un desiderio improvviso di sorseggiare qualcosa di caldo. Sì, avrei bevuto volentieri un orzo.
Mentre pensavo a come appagare le mie voglie, mi si è posato lo sguardo su una scritta luminosa in stile liberty: Bar Novecento. Anche le vetrate sulla porta d’ingresso erano decorate con fregi che s’intonavano all’insegna. Ho capito subito che avrei preso lì il mio orzo.
Il bar era arredato in accordo con quanto il suo nome avrebbe lasciato immaginare. I pochi clienti che c’erano davano l’impressione di essere avventori abituali.
Ma l’elemento piu’ interessante di quel luogo d’altri tempi era senza dubbio il barista, una specie di mangiafuoco dall’aspetto curato e perfino elegante, con occhi blu come il mare e imponenti baffi biondi. Ad aiutarlo c’era una giovane donna, anch’essa bionda, con la carnagione pallida e un fare gentile. È stato mangiafuoco a prendere la mia ordinazione. E allora, con un certo stupore, mi sono accorta che era muto. Sì, mi ha servito senza proferire parola, comunicando a gesti ed emettendo di quando in quando suoni gutturali. Mi hanno colpito la sicurezza e la naturalezza che mostrava e soprattutto l’atteggiamento autoritario con cui impartiva ordini alla ragazza bionda.
Nell’incanto del momento avevo gia’ deciso che i due fossero una versione padre/figlia de “La bella e la bestia”. Credo che quella sera io abbia bevuto l’orzo piu’ intenso della mia vita.
E tornando a casa mi sono chiesta con perplessita’ cosa spingesse la gente a preferire il Barilla center a quello splendido caffè dall’atmosfera felliniana. E alla fine ho concluso che, a prescindere dalle preferenze dei singoli, forse è proprio la coesistenza di due luoghi così diversi tra loro a generare la magia.

Ah, mi sono appena ricordata che tra qualche ora iniziera' la primavera.

domenica 31 agosto 2008

Dopo 45 anni...un altro sogno?

L'altra sera ho guardato in TV il discorso di Obama, col quale ha accettato ufficialmente la candidatura a futuro presidente degli USA, quale rappresentante dei democratici. L'evento ha avuto luogo esattamente 45 anni dopo il celeberrimo "I have a dream" del Dr King (come i neri chiamano Martin Luther), tenutosi al Lincoln Memorial a Washington.
Certi paragoni possono risultare scontati e magari superficiali. Sta di fatto che Obama l'altra sera e' stato magnifico. La folla che lo ascoltava nello stadio della lega americana di football a Denver (circa 84000 persone) e' stata per tutta la durata dell'evento letteralmente in delirio. Io ho avuto i brividi (reali) dall'inizio alla fine.
Ecco alcune affermazioni politiche relative alla agenda di Barak che mi sono piaciute.
Lui vuole che gli USA si rendano indipendenti, ragionevolmente entro circa 10 anni, dalle risorse energetiche straniere e che investano su fonti di energia alternative, creando cosi' anche nuovi posti di lavoro nel paese.
Ha pure detto che ridurra' le tasse alle famiglie appartenenti ai ceti piu' bassi (working families) e alle piccole attivita' imprenditoriali. Al contrario, eliminera' gli sgravi fiscali a quelle aziende che esporteranno il lavoro all'estero.
Ovviamente ha parlato di molto altro.
In tanti si domandano se, in caso venga eletto, riuscira' a mantenere le sue promesse.
Chissa'. Vedremo. Intanto prendiamo atto che e' arrivato fino a qui, partendo da una situazione di notevole improbabilita'. Non solo e' lui (a young black everyman) il rappresentante democratico nell'elezione del presidente degli Stati Uniti, ma grazie a lui il partito democratico ha registrato 4 milioni di nuovi iscritti.
Ora, io non credo molto nell'efficienza della rappresentanza politica, almeno a beneficio delle classi sociali piu' basse. I rappresentanti politici istituzionali, anche quelli con le migliori intenzioni, hanno necessariamente un campo d'azione limitato, in sistemi come quello americano o come il nostro. I grandi giochi li gestiscono coloro che detengono il potere economico.
Niente di nuovo, ma purtroppo sempre tremendamente vero.
Ad esempio, leggevo in un'inervista a Chomsky che ultimamente alcune grandi aziende (tipo la General Motors) si stanno rendendo conto che gli costa meno pagare un dipendente in Canada (dove la sanita' e' pubblica) piuttosto che negli USA, dove in genere e' l'azienda a pagare gran parte dell'assicurazione sanitaria dei propri dipendenti. Per questo hanno iniziato a valutare la possibilita' di creare public healthcare anche negli Stati Uniti. E, afferma Chomsky, e' per questo che durante la presente campagna elettorale i candidati democratici hanno potuto affrontare la questione nei loro programmi. Ora, infatti, anche alcune delle grandi corporazioni si stanno muovendo in quella direzione. Per me non fa una piega.
Morale della favola, pure Obama non sara' immune da certi vincoli e limitazioni. Bisognera' vedere come gestira' la sua presidenza (mi auguro che venga eletto). Non mi aspetto miracoli per le ragioni di cui sopra.
Di certo, pero', finora ha fatto bene un bel po'.
Che sia una questione di personalita' e di carisma? Indubbiamente, ma non solo.
Secondo me lui crede in quello che dice e in quello che fa.
Mi e' piaciuto quando ha dichiarato "This election is not about me. It's about you, the American people." E anche quando ha detto "America, we are better than these last 8 years. We are a better country than this." E poi quando ha citato "The moving forward that pushes us even when the path is uncertain".
Mi ha fatto persino ridere con un'affermazione sul suo avversario, "It's not that McCain doesn't care. He doesn't get it." Forse perche' a me e' venuto da tradurre automaticamente come qualcosa tipo "Non e' che McCain sia cattivo. E' proprio scemo."
Insomma, Barak Obama sembra avere la capicita' di muovere gli animi della gente. Mi pare che sia stato in grado fino ad oggi di scuotere un discreto numero di americani dalle loro esistenze robotiche.
Che dire, io lo vedo come un inizio. Voglio pensare che lo sia.
Proprio questa sera ho beccato per puro caso in TV l'episodio di Saturday Night Live a cui lui ha partecipato. Non sapevo niente della cosa e quando l'ho visto per un attimo mi ha spiazzata. Poi ho pensato "che tipo che e'!" e me lo sono immaginato ospite da Luttazzi...chiaramente quando ancora c'aveva il programma.
Il video merita comunque, anche perche' c'e' Amy Poehler che fa Hillarona.
Una sottigliezza che puo' dirla lunga.
Credo che Barak non abbia completato la battuta finale, dicendo "It's Saturday night" invece di "It's Saturday night live".
Forse questo vuol dire che a stare sulla scena si emoziona pure lui...quando si tratta di recitare :)
Invece, per tornare a McCain che non e' cattivo ma scemo e per riallacciarmi ad una questione sollevata da Barbara nel suo blog, "Perche' McCain ha scelto Sarah Palin?", allego un pezzo trovato su Wonkette (blog satirica di Washington) dal titolo "John McCain Is Ruining Sarah Palin's Life". Hilarious.

Concludo augurando lunga vita a Barak, che come ci ha ricordato Barbara, sa pure ballare :)

sabato 23 agosto 2008

Lo slargo di Rolling road, le sorprese e...Sandor

Oggi pomeriggio sono andata a spedire i documenti per fare domanda per il lavoro a Parma. Ero nervosa perche’ in ritardo notevole. Come sempre, del resto. Sono andata da FedEx, non essendo neanche sicura che quel negozio in particolare facesse spedizioni internazionali. Avrei potuto verificarlo prima, ma per qualche perverso meccanismo, mi riduco sempre all’ultimo minuto, specialmente in situazioni importanti.
Il negozio FedEx dove sono andata oggi lo associo al ragazzo che ho frequentato negli ultimi mesi. Una domenica mattina io ero appena uscita dallo Starbucks adiacente e lui era appena uscito da FedEx. Mi ha fermata, abbiamo iniziato a parlare e alla fine della conversazione ci eravamo scambiati le email. Da quella volta ci siamo frequentati per un po’ di tempo. Nulla di strano. Anzi, assolutamente normale. Le persone qui si incontrano in questo modo. I ritmi di vita sono talmente serrati e ciascuno e’ cosi’ assorbito dalla propria lista di cose da fare (la famosa “schedule”) che non rimane tempo per conoscere persone nuove. Risultato: le amicizie si fanno al lavoro o nell’ambito di attivita’ extra-lavorative o letteralmente al supermercato...oppure nei parcheggi, come nel mio caso. Da noi suonerebbe magari un po’ squallido, ma qua non lo e’ di certo. It’s just the way it is. Dinamiche differenti.
Dopo quell’evento inaspettato, per me la FedEx di Rolling road ha un valore speciale. Il ragazzo con cui sono stata non c’entra per nulla in tutto cio’. Non lui in particolare, almeno. Quella zona ormai la associo al concetto di sorpresa, di accadimento inatteso portatore di energia nuova.
L’aver concluso l’impresa della spedizione dei documenti via FedEx mi ha decisamente risollevata dall'ansia del -e adesso se non ce la faccio?-. Cosi’ ho deciso di concedermi un “unsweetened green iced tea” e sono entrata da Starbucks.
Una volta acquistato il te', mi sono seduta ad un tavolino, sotto il portico all’aperto. C’e’ da dire che la visuale li’ e’ piuttosto terribile. Un prato all’inglese separa la caffetteria da uno stradone a tre corsie, generalmente molto trafficato, oltre il quale, a quell’altezza, si trova il Double T, un tipico diner di periferia.
All’inizio quel genere di scenario mi deprimeva profondamente. Ora, che mi sono abituata ai paesaggi urbani e suburbani di Baltimora, sedere di tanto in tanto davanti allo Starbucks di Rolling road ha su di me un effetto rilassante.
Mentre sorseggiavo il mio te’ verde totalmente immersa nel momento, ho visto arrivare un ragazzo con uno splendido cucciolo di cane al guinzaglio. Il ragazzo sembrava ubbidire totalmente ai desideri del piccolo amico, il quale ha deciso (opportunamente) di stazionare sulla parte di prato vicina a me. Abbiamo iniziato a parlare; io e il tipo (di nome Dan), io al cane. Ho scoperto che il piccoletto si chiamava Sandor e che aveva appena undici settimane. Sembrava un po’ intontito, come se ogni pochi minuti avesse bisogno di sedersi e riposare. Dan mi ha spiegato che proprio ieri gli aveva fatto un qualche vaccino. Io e Sandor siamo diventati subito amici. Abbiamo interagito in modo buffo e secondo un andamento ciclico, probabilmente a causa dell’effetto stordente del vaccino. Si trattava in pratica di giocare un po’, poi lui si riposava, rimanendo sempre vicino a me, e magari si faceva fare qualche coccola. Dopodiche' si ricominciava da capo.
Ad un certo punto, il ragazzo mi ha chiesto se poteva lasciarmi il cucciolo per un paio di minuti mentre lui entrava nella caffetteria a consumare. A me, ovviamente, non e’ parso vero. Sandor sembrava contentissimo di essere rimasto in mia compagnia, tanto che persino i suoi ritmi di gioco si sono un po’ movimentati. Poi pero’ ha dovuto fare di nuovo una pausa e allora io ne ho approfittato per scattargli delle foto.
A quel punto Dan e’ uscito da Starbucks e io ho deciso che era ormai tempo di andar via. Ci siamo salutati, lui mi ha ringraziata e Sandor continuava a fissarmi con lo sguardo piu’ dolce del mondo.
Camminando verso la mia macchina, con un umore piuttosto sereno, ho pensato a quanto era successo. Lo slargo di Rolling road mi aveva regalato di nuovo una piacevole sorpresa.
Ora, pero’, il mio ritorno in Italia sembra essere nell’aria.
Signore e signori, questo e’ Sandor...




domenica 10 agosto 2008

The edge of heaven...at the Charles Theatre

Ieri sera sono andata al cinema. Il Charles Theatre e’ una delle cose di Baltimora che amo di piu’. E’ un cinema dove vengono proiettati ottimi film d’essais e, soprattutto, e’ un business locale. Non so bene chi lo gestisca, ma di sicuro appartiene alla citta’ di Baltimora dal 1939 ed e’ riuscito, in tutti questi anni, a tenere testa alla spietata concorrenza delle catene multisala. Il locale secondo me e’ bellissimo. Venne disegnato alla fine del 1800 per essere, almeno inizialmente, deposito per tram in un'ala e centrale elettrica nell'altra. Ebbene, conserva ancora oggi l’atmosfera di entrambi. Sul piano delle associazioni affettive, il Charles mi fa pensare al Modernissimo e allo Zenit; ma la struttura architettonica, che richiama gli echi degli urban workers che ci lavoravano nella prima meta’ del ‘900, gli conferisce un’individualita’ tutta speciale.
Sono andata a vedere The edge of heaven, l’ultimo lavoro di Fatih Akin.
Del regista turco-tedesco ho visto sia La sposa turca che Crossing the bridge ed entrambi, col loro linguaggio crudo ma poetico, mi sono piaciuti moltissimo.
Non vedevo l’ora di avvicinarmi al cielo :)
The edge of heaven e’ una storia di frontiere (geografiche, temporali, politiche, metaforiche) che vengono attraversate piu’ o meno ripetutamente o, alcune volte, con viaggio di sola andata. Gli eventi (semplici e in certi casi semplificati all’estremo) si susseguono secondo un andamento non lineare o, piuttosto, rizomatico. La morte e’ un elemento centrale.
Quanto ho scritto finora potrebbe far pensare che ieri abbia visto un film meraviglioso. Purtroppo ritengo che non sia cosi’. The edge of heaven e’ molto bello, ma ha delle imperfezioni decisamente non trascurabili. Peccato, perche’ gli ingredienti sembravano esserci tutti.
Credo che la sua debolezza principale sia l’eccessiva sfumatura dei toni, che si traduce inevitabilmente in mancanza di incisivita’. Per quasi tutto il tempo si ha come l’impressione di essere sospesi in un limbo e di venire trasportati in moto libero dagli eventi stessi. Per un po’ la sensazione e’ persino piacevole; si’, decisamente piacevole. Poi, pero’, ci si aspetta che la fluttuazione si interrompa e che si inizi a prendere quota. Questo purtroppo non avviene mai. Nemmeno nel finale. Tanto meno nel finale. In The edge of heaven il cielo si vede solo da lontano, forse un po’ troppo da lontano.
In una struttura rizomatica i vari nodi dovrebbero avere vita autonoma, dovrebbero essere indipendenti gli uni dagli altri e dalla radice che li ha generati. In questo film cio’ non succede. I nodi mancano di luce propria.
Per carita’, il lirismo anarcoide di Akin e’ sempre di ottima qualita’. Splendide immagini, musica eccellente, recitazione buona ci accompagnano per tutta la durata della pellicola.
C’e’ solo una cosa che letteralmente mi sfugge e che davvero non so come interpretare. Volutamente non ho fatto il minimo accenno alla trama (che comunque potete leggere nel sito accessibile dal link), ma in questo caso mi tocca fare un’eccezione. Non me ne vogliate.
Come diavolo fa Ayten a uscire di galera??? Forse facendo la spia???
Spero di aver capito male, perche’, se cosi’ non fosse, quello costituirebbe per me un enorme buco nero, nel quale e dal quale l’intero film verrebbe inesorabilmente risucchiato. E si’, per la miseria, qualunque tipo di evoluzione del personaggio sarebbe accettabile, che si concordi o meno. Ma la delazione, unica via percorribile per attuare il processo di cambiamento, no, mi dispiace non gliela posso lasciar passare. Finzione per finzione, ad Akin potevano venire in mente almeno un paio di idee migliori.
Resta la possibilita’ che io possa aver frainteso. Anche in questa circostanza, pero’, Akin non se la cava. Un dubbio del genere, infatti, non puo’ essere lasciato. Pena, la delusione dello spettatore (be'...sicuramente la mia).
Quando si sono accese le luci nella sala ho notato le quattro ragazze che erano sedute nella fila di fronte a me. Giovani americane, probabilmente compagne di college. Alzandosi, le tipe hanno iniziato a commentare, o meglio, a esprimere sinteticamente il loro disappunto.
Una ha detto con tono piuttosto seccato: “ Va bene, vuol dire che ho sprecato 8 dollari.” Le altre hanno annuito.
Istantaneamente mi sono chiesta se le quattro ragazzette fossero state deluse dalle debolezze del film, che anche io avevo notato, pur apprezzandone gli innumerevoli aspetti positivi o se semplicemente non avessero capito nulla e fossero state sopraffatte dalla organizzazione non lineare della storia e dai suoi toni non convenzionali (ripensandoci, mi auguro che non siano state infastidite dai riferimenti anticapitalistici).
Non ho paura di ammettere che, dopo quasi quattro anni di vita in questo paese, tendo a propendere per la seconda ipotesi.
Perdonate l’arroganza.
Sarei immensamente felice di sbagliarmi :)

mercoledì 6 agosto 2008

Zinn su Obama e le elezioni in America

Qualche giorno fa Serena ha sollevato la questione Obama. Barbara ed io abbiamo espresso il nostro parere sull'argomento. Ieri, graziosa coincidenza, ho trovato un articolo di Howard Zinn sulla frenesia elettorale in America e, poco dopo, una lettera aperta a Obama, che lo stesso Zinn ha recentemente sottoscritto. Mi sono piaciuti tanto tutti e due...